Campeggio a Monte di Mezzo – Diario di Amelia “Lia” Magrin soprannominata “La Trappola”

dal 10 al 17 agosto del 1943 venne organizzato da un gruppo di ragazzi un campeggio in tenda a Monte di Mezzo, sotto il gruppo del Cherle (Piccole Dolomiti).
Parteciparono: Sergio Francesconi, Aldo Gallio, Sergio Trulla, Ivan Vaccari, Bruna Conte, Maria Gallio, Lia Magrin e Romana Pasin.
Il gruppo fece diverse scalate e compì la prima ascensione del vajo “della Trappola”.

L’archivio di Bepi Magrin contiene due diari che descrivono queste giornate. Quello che segue è di Amelia “Lia” Magrin (soprannominata “La Trappola”) mentre a questo link è possibile leggere quello di Sergio Francesconi (molto belle le fotografie allegate).


 

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la copertina del diario di Lia Magrin

 

E l’allegria la vien dai zoveni…

Con la tenda a Monte di Mezzo
sotto il gruppo del Cherle
10-17 Agosto 1943

Partecipanti all’accantonamento:
Sergio Francesconi,
Aldo Gallio
Sergio Trulla
Ivan Vaccari
Bruna Conte
Maria Gallio
Lia Magrin
Romana Pasin

MARTEDI’ 10 Agosto 1943
Vigilia della partenza! Confusione indescrivibile! Corse per la città in bicicletta con capaci borse e una lista interminabile di compere. In cucina baraonda di sacchi da montagna, di viveri di vestiario, di coperte ecc…
Visite a più riprese dei miei compagni per gli ultimi accordi.
– C’è ancora posto nel tuo sacco, Lia? Avrei da metterci dentro un sacchettino!
– Andate al diavolo! esclamo furibonda. Ho ancora un’infinità di cose, compreso il pane, che non so dove mettere. Mica scherzerete, vero?
Elettricità nell’aria e nelle persone. Entusiasmo appena represso. Discorsi incominciati e non finiti. Nervosa allegria. Entra Francesconi guardando con comico spavento i cinque voluminosi sacchi che ingombrano la cucina.
– Me lo hai fatto fare il mio pane? – chiede timidamente.
Vorrei rispondergli:
Ma si! Ho avuto tempo anche di pensare al tuo pane! Prenditelo e va fuori dai piedi, per carità!
Ma per educazione preferisco tacere e gli consegno il suo pane senza parlare. Gli occhi mi si chiudono dal sonno e dalla stanchezza. Ma il campanello suona ancora.
– Lasciatemi in pace, ve ne scongiuro! – vorrei gridare.
Ma entra Ofelia che tiene sulle mani, spiegato, il mio prendisole. Gli occhi mi luccicano di gioiosa sorpresa e trovo il tempo di appoggiarlo alla mia persona e di avvicinarmi allo specchio per vederne l’effetto. Un attimo di sosta. Lo specchio ritrae un viso scapigliato e sporco che mi mette in allegria. Ma la voce di Aldo mi richiama immediatamente alla realtà. Bisogna assolutamente trovare una pentola capace, perché lui ne è sprovvisto. Coprendolo di improprie e di mute maledizioni allungo la mano e prendo la pentola di casa, scintillante e seminuova.
– Addio pentola mia! – penso mestamente. Chissà se ritornerai ancora nella mia casa! E se ritornerai sarai certamente mutilata e irriconoscibile!
Ma domani si va in montagna, e questo pensiero è sufficiente per allontanare tutti i rimpianti.
Mi sdraio sul letto sfinita dalla stanchezza. L’afa soffocante e le zanzare vanno inutilmente a gara per non farmi dormire. Mi addormento e dopo pochi istanti il silenzio è lacerato dal suono d’allarme delle sirene.
Mi alzo o non mi alzo?
Muta domanda che non attende risposta. Balzo dal letto e sveglio i fratelli e con le gambe che malamente mi reggono mi avvio verso la campagna.
Mi ricorico dopo un’ora sospirando il momento della partenza.

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MERCOLEDI’ 11 Agosto 1943
Ritrovo in stazione alle ore 5.
Visi stanchi e assonnati! I sacchi sono tanto spaventosamente voluminosi che ogni arrivo viene accolto con allegre risate. Battibecchi:
– Ammetterai, però, che il mio sacco pesa più del tuo!
– Cosa dici? Prova ad alzarlo e te ne accorgerai!
Tutti vogliono convincere che il loro sacco è il più pesante. Mi metto il mio sulle spalle e, che sia o meno il più pesante, sento che cammino ondeggiando paurosamente.
Sto per salire sul tram quando sento dai compagni che mi seguono frammenti di discorsi e allegre risate. Mi fermo incuriosita e domando spiegazioni. Nulla di grave! Bruna e Maria nel mettersi il sacco in spalla hanno fatto un paio di capitomboli, fortunatamente senza serie conseguenze. Si comincia bene, a quanto sembra!
Finalmente si parte.
In tram la solita allegria e le solite risate. Dopo pochi chilometri Trulla mi consegna una valigetta contenente un centinaio di uova, raccomandandomi la massima prudenza, cosa che dimentico spesso. E durante tutto il tragitto Antonio Sergio Trulla mi investe spesso con la sua angelica voce, richiamandomi all’ordine:
– Cosa fai? Non vedi che la valigia sta per cadere?
E giù una “deliziosa” manata per rimettere in equilibrio il prezioso, ma ahimè, troppo fragile peso.
Ma solo a Valdagno avviene il fattaccio. Già da qualche tempo Aldo Gallio osserva attentamente una sospettosa macchia nerastra che si allarga sempre più nel sacco di Maria. Ad un tratto prende la decisione e posandosi il sacco sulle ginocchia lo apre e vi mette dentro una mano. Orrore! La mano ritorna “alla base” tutta coperta da un denso strato di marmellata dal colore equivoco, uscita da un paio di scatole in bachelite rotte nel capitombolo. Sul viso di Aldo si notano tutti i colori dell’iride. Silenziosamente, arricciando il naso dal disgusto, leva tutti gli indumenti dal sacco e inizia lo sgombero della marmellata prendendola a manate e lanciandola a tutta forza dal finestrino, correndo il rischio di accecare le persone che tranquillamente passano per la strada. E la colpa di tutto questo di chi è? Naturalmente della Maria che ha sempre la testa sulle nuvole! Così almeno la pensa Aldo. Ma certamente Aldo non pensa anche che i fratelli sono stati creati solo per inasprire le sorelle con le loro interminabili e inutili paternali! Basta, altrimenti mi arrabbio!
A Recoaro un’auto pubblica ci attende per caricare sacchi e borse che verranno depositati a Campogrosso.

LIA MAGRIN
Amelia “Lia” Magrin soprannominata “La Trappola”

Bruna e Romana “delicatamente” prendono posto sul sedile anteriore mentre Trulla e Francesconi abusivamente siedono sul non troppo soffice sacco di patate assiso nel portabagagli posteriore. E l’auto parte mentre io guardo con invidia i fortunati che si risparmiano 2 ore di noioso camino meditando sulla verità del popolare detto e cioè che “el mondo el xe dei furbi”.
Ci avviamo lentamente verso la montagna e quando vediamo spuntare il tetto del rifugio ci ritorna un breve sprazzo di allegria che sparisce subito alla vista spiacevole dei quasi dimenticati sacchi.
Breve sosta al rifugio-osteria dove uno sciame svariato di villeggianti e in costumi folcloristici, posano da montanari.
Un leggero spuntino e una bibita mi ridà un po’ di forza e ci si avvia quindi poco dopo, con il nostro, spaventoso e ingombrante peso verso la Malga Monte di Mezzo, luogo dell’accantonamento. Io e Bruna precediamo la compagnia. La forza della disperazione ci fa camminare senza soste e per dimenticare la stanchezza parliamo continuamente. Arrivate alla Malga chiamiamo Trulla e Francesconi che ci avevano preceduto da qualche tempo e finalmente arriviamo alla meta, raggiunte, poco dopo, dal resto della compagnia. Dopo un breve riposo all’ombra della tenda Trulla fa sentire la sua voce:
– Avanti, muovetevi! Bisogna piantare le altre tende e fabbricare il focolare. E manca l’acqua e la legna e le foglie. E voi, donne, cosa ci preparate da mangiare?
– Capucci! -rispondo io. E fingo di non vedere la sua smorfia di disgusto. Lavoriamo tutti alacremente e alle 17 ogni cosa è pronta. Ci sdraiamo poi sull’erba per godere finalmente il meritato riposo, ma la Maria non può stare ferma e con la pentola in mano vuole assolutamente dimostrarci le sue doti di cuoca.
La chiamo.
-E’ troppo presto, Maria, per la cena, e i capucci si cuociono in breve tempo. Vieni a riposarti! Macché! Le mie parole non vengono ascoltate e lei continua a rimescolare dentro la pentola. Intanto Bruna vuole a tutti i costi insegnarci l’ameno e complicato gioco del “dentro sul buso e fora dal buso”. Ma Francesconi e Trulla, scambiandosi una eloquente occhiata, corredata da poche ma franche parole mormorate sotto i baffi, non vogliono saperne di buchi e io mi allontano frenando a stento una risata.
Alle 19 la cena è pronta e la minestra di riso e capucci, sebbene tanto disprezzata, viene mangiata con grande appetito. Il fuoco viene continuamente alimentato mentre noi sdraiati tutt’intorno iniziamo le “cante”. Di tanto in tanto Trulla e Francesconi e qualche altro compare si bagnano l’ugola per cantare meglio e quando ci corichiamo le borracce penzolano vuote dai pini.

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GIOVEDI’ 12 Agosto 1943
Ci si alza al mattino con le ossa peste e pieni di allegria. Scendiamo alla fonte (scoperta da Trulla e che ci dà un’acqua freschissima) per un frettoloso bagno, che ci risveglia completamente. La ricca e complicata colazione viene divorata allegramente da noi donne mentre gli uomini sospirano malinconici una goccia di vino. Bisogna assolutamente risolvere questo importante problema e Trulla con Francesconi (una breve pausa per avvertire coloro che leggeranno queste pagine di non pensare male di me se nomino troppo spesso questi miei due amici: Ammetto di avere per loro un debole) decidono di andare a far rifornimento a Obra acconsentendo, dopo qualche titubanza, di prendermi in loro compagnia. Bellissimo il sentiero che porta a questo piccolo paesetto di montagna, e io mi diverto a osservare l’incantevole paesaggio che mi circonda. Ma prima di arrivare in paese Trulla mi investe bruscamente:
– In mia compagnia non ti voglio, hai capito? A Obra ci sono delle ragazze e capirai… Aspettami qui e non ti muovere, altrimenti guai a te! Guardo Trulla e poi Francesconi dolorosamente perplessa e tento un timido sorriso continuando a camminare. Ma il mio sorriso no li conquista e mi sbarrano la strada con un bastone in mano. Giuro che non sapevo se scherzassero o meno e per un momento mi fermai imbarazzata. Ma che ci stavo a fare io, appoggiata ad una siepe, in un paese sconosciuto, tutta sola? Perciò metto cinque o sei metri di distanza fra me e loro e li seguo lentamente. Arriviamo così al centro del paese dove cinque ragazze stanno lavando i panni. Guardo i miei compagni, studiandone gli atteggiamenti e quando vedo Trulla avvicinarsi ad una ragazza mi faccio piccola piccola per passare inosservata e per gustare meglio una scenetta che credevo piccante. Ma Trulla dopo un educato “buongiorno” domanda:
– Sala dirme dove se pol trovare un’ostaria?
Respiro sollevata e nascondendo un sarcastico sorrisetto mi unisco ai compagni che cercano di giustificare la loro timidezza dicendomi che quelle ragazze non erano di loro gradimento. Fingo di crederci!
Intanto le borracce vengono riempite e le ugole dei miei compagni ammorbidite un litro di vino, e si riprende poi allegramente la via del ritorno. Quanti metri percorro in dolce calma? Molto pochi perché appena fuori dal paese Trulla e il “Moro” mi caricano sulle spalle borracce, macchina fotografica, vestiario ecc… e mi obbligano a camminare senza soste frenando le mie ribellioni con la violenza. Per pochi minuti mi diverto anch’io ma quando vedo che lo scherzo si prolunga un po’ troppo e che il sudore mi cola a rivoletti dalla fronte cerco di liberarmi, furibonda, dall’odiato peso.
-Cosa credete? Che io sia un asino? Prendetevi le vostre maledette borracce e la vostra macchina, per carità, altrimenti scaravento tutto giù dal monte. Mascalzoni, delinquenti, farabutti! E giù una sequela di improperie!
Ma Trulla non si scompone tanto e dandomi una “zampata” sulle spalle, mentre Sergio mi fa sentire il bastone, mi obbliga a proseguire. Sono troppo debole per reagire alla forza brutale di quei due loschi compari perciò riprendo il cammino chiusa in un mutismo offensivo e trattenendo a stento le lagrime. Dopo quasi un’ora di fatiche inenarrabili Trulla si commuove e strappandomi dalle mani le borracce vuole compensarmi della fatica sollevandomi e caricandomi sulle spalle del “Moro” come fossi una fascina. Mi divincolo con pedate e graffi invocando aiuto finché mi mettono a terra e mi lasciano in pace. Ma questo loro perfido scherzo lo pagano subito caramente poiché il sentiero giusto è stato smarrito e ci si trova improvvisamente quasi in fondo valle. Non mi dilungherò a descrivere la strada che ho fatto per ritrovare la via giusta, dirò solo che ho percorso in discesa dei boschi vergini lasciandomi penzolare dagli alberi come una scimmia, per risalire poi nuovamente aggrappata ad una teleferica. Per consolarmi Trulla mi ripeteva continuamente:
-Ecco, Lia, questo è il sentiero buono!
Ma ne aveva trovati troppi, di sentieri buoni, perché io potessi crederci ancora.
Finalmente, quando la stanchezza stava per sopraffarmi ci si trova improvvisamente a pochi minuti dall’accantonamento, dove arrivo stanca, affamata e con un ginocchio ferito.
Ma una piacevole sorpresa ci attende; Maria sta preparandoci i “gnocchi” aiutata da Ivan e da Romana.
– Volete che vi aiuti? – ringhia Trulla.
E senza attendere risposta incomincia a bucare con una delle sue delicate dita, gnocco per gnocco.
Il gustoso pranzetto viene divorato golosamente e anche annaffiato copiosamente tanto che ad un dato momento, gli occhi di Francesconi spariscono dal volto.
Nel pomeriggio sfoggio finalmente il prendisole e mi sdraio sull’erba completamente rasserenata. Mi fanno compagnia Romana e il “Moro” il quale s’è illuso di studiare il tedesco. Povero tedesco e poveri esami!
Verso sera il cielo mette il muso e cominciano i primi goccioloni. Ci rifugiamo nella “tenda Comando” a giocare le carte ma Trulla, come al solito, ci imbroglia facendomi scappare subito.
Sono quasi le 19 quando vedo arrivare nel nostro accampamento, col suo seguito, mio fratello il quale viene accolto con sincera cordialità. Non so se rallegrarmi per questo arrivo; io voglio tanto bene a mio fratello solo se un centinaio di chilometri ci separano. Ma faccio buon viso alla cattiva sorte e lo accolgo col mio più dolce fraterno sorriso. La notte scende fra canti e copiose bevute da parte del sesso forte.
E Romana e Ivan fumano continuamente.

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VENERDI’ 13 Agosto 1943
Nella notte il tempo ha fatto il matto. Scrosci d’acqua, lampi, e tuoni. La tenda mi ripara bene ma qualche indiscreta goccia d’acqua trova la via per giungere fino a me e io me ne difendo coprendomi anche la testa con la coperta. Al mattino mi sveglio invasa di nervosismo, desiderando ardentemente di poltrire più del solito fra le coperte. Ma le voci dei miei compagni mi ricordano improvvisamente che sono di turno alla mensa.
– Alzati, Lia! E’ tardi e noi abbiamo fame!
– Auf! che nervi!
Esco dalla tenda e col mio solito metodo spiccio preparo la colazione. Mezza dozzina di uova al burro, mezza dozzina montate a neve, surrogato, pane, biscotti, grissini e l’inevitabile vino.
La mi esperienza mi insegna di fare colazione prima degli altri per non correre il rischio di rimanere a bocca asciutta. Quando gli svariati tegamini sono svuotati e meticolosamente ripuliti con un pezzo di pane la compagnia si divide e si allontana verso i già fissati itinerari. Rimango al campo con i miei due aiutanti, Trulla e Francesconi, ai quali comincio ad impartire ordini.
– L’acqua, Trulla, me la vai a prendere tu e Francescani andrà a trovare un po’ di legna. Io intanto preparerò la verdura per il minestrone.
– Trulla sbotta:
– Io non posso perché ho un lavoro urgente da fare. Manda un altro o arrangiati!
Contemporaneamente anche Francesconi reclama:
– A trovare legna sul bosco? Impossibile, cara mia, perché debbo studiare e fare la lezione!
Li prenderei a schiaffi!
Debbo fare la voce grossa per farmi ascoltare e finalmente, brontolando, eseguiscono i miei ordini.
Intanto mio fratello, accampato a pochi metri da noi, mi chiama in aiuto perché gli prepari la minestra di riso e patate e cosi, fra una pentola e l’altra non ho un attimo di sosta. Alle 10 il minestrone per la sera è pronto e così pure la minestra di Aldo. Preparo poi subito la salsa per la pasta asciutta del mezzogiorno e maledico le cipolle, marca Pasin, che mi fanno piangere copiosamente.
Un altro ingrato lavoro mi aspetta: la rigovernatura delle stoviglie.
Trulla mi dice:
– Puoi andare sul Vajo dei “bissi bianchi” dove l’acqua è abbondante. In cinque minuti vi arrivi!
Ascolto il suo consiglio e con le mani cariche di tegami e pentolini, cucchiai e mestoli, seguita da Francesconi che porta la pentola, la soda e “el scoatto” mi avvio verso il vicino Vajo.
Altro che vicino! Cammino già da un quarto d’ora tenendo in equilibrio le stoviglie che tintinnano e cadono continuamente ma di Vaj non ne vedo. Finalmente dopo quasi mezz’ora arrivo sul posto maledicendo Trulla e il suo consiglio. Quando ogni cosa è ripulita mi fumo in santa pace una sigaretta dimenticandomi che sul fuoco ho lasciato la salsa a cucinare. Me ne ricordo improvvisamente e radunando in fretta le stovigile ritorno al campo dimenticando sul Vajo la soda.
Affronto Trulla con vivaci rimproveri, ma lui, come al solito, mi ride in faccia. Lo schiaffeggerei!
Alle 13 la compagnia è radunata per il pranzo. Elogi alla cuoca che risponde ringhiando, tutta indaffarata. Nel pomeriggio, tutti assieme, andiamo a fare una piccola escursione. Si sale per il Giaron delle Giare Larghe prima e per il Giaron dei Cavai dopo. Iniziamo un bellissimo Vajo sulla destra di detto Giaron, ma dobbiamo desistere dall’impresa perché è alquanto difficile e anche perché abbiamo in nostra compagnia elementi incapaci. Lentamente e malinconicamente ritorniamo all’accantonamento dove io mi ritiro subito in “cucina” per preparare la cena. Il minestrone trabocca dalla pentola e io penso che forse ho un po’ ecceduto nella quantità. Ma anche questa è un’illusione e me ne accorgo all’ora della cena. Nel frattempo chiamo Bruna per consigliarmi sulla scelta del secondo piatto.
Patate? No!
Con il minestrone non vanno? E nemmeno uova!
– Senti, Bruna, se preparassi un succulento piatto di peperoni al salto?
Bruna condivide la mia idea con entusiasmo e mi confida che ha sempre avuto un debole per i salti, cioè per i peperoni.
Sai, Lia, perfino in ufficio… esclama. Ma tronca subito la confidenza a metà abbassando la testa e arrossendo pudicamente. Anche il secondo piatto viene accolto con entusiasmo e io sono soddisfatta della mia giornata. Ma solo quando siamo tutti radunati attorno al fuoco si verificano i malefici effetti dei peperoni. Le ragazze sembrano tutte impazzite e continuano a saltare impazzite. Bruna sembra addirittura una cavalletta e io con la coscienza che mi rimorde cerco, pietosa, di calmarla. E finisce così, fra allegre risate, la terza giornata di accantonamento.

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SABATO 14 Agosto 1943
L’addetta alla cucina è Romana la quale con l’inseparabile prendisole cerca di arrangiarsi alla meglio. Il menefreghismo di questa ragazza è incredibile. Lei si preoccupa solo di lavare la biancheria e di mangiare continuamente. Le grandi ascensioni le incutono timore e le sue passeggiate si limitano sul vicino bosco, dove la si vede continuamente salire e scendere.
– Dove vai, Romana?
-chiede sempre qualcuno.
-A fare una fumatina – risponde lei con impudica franchezza e senza scomporsi.
E questo sue atteggiamento provoca sempre allegre risate.

Riprendo. Dopo la colazione Aldo Gallio, Maria e Ivan, capo comitiva, partono alla volta del Vajo dei Colori, mentre Trulla e Francesconi preparano silenziosi la corda ed i chiodi. Li guardo con invidia e domando timidamente se mi prendono in compagnia. Contemporaneamente anche Bruna rivolge a loro la medesima domanda e siamo ben felici quando questo nostro desiderio viene esaudito.
– Dove mi accompagnate, ragazzi?
– Domando impaziente
– Si andrà a fare un Vajo che, se non erro, deve portarci alla base delle Pale dei Tre Compagni. – Risponde Francesconi.
E dopo un cordiale arrivederci a Romana e a mio fratello, lascio il campo.
Una intelligente e particolareggiata descrizione di questa indimenticabile ascensione è stata fatta da Francesconi, nostro capo cordata. La trascrivo.

DIARIO DELLA PRIMA ASCENSIONE DEL VAJO “della TRAPPOLA”
Ritornando un giorno, dopo un infruttuoso tentativo di salita, dal Giaron delle Giare Larghe, incuriosito mi fermai per osservare una vivissima e sprizzante sorgente d’acqua. Quindi osservando in alto, scorsi, per un centinaio di metri, una specie di Vajo, in fondo al quale scorrevano saltellando e precipitando alcuni rivoli d’acqua. Immediatamente mi formai la convinzione di essere davanti ad una nuova via di accesso alle Pale dei Tre Compagni.
Come sarebbe bello, mi dicevo, effettuare questa ascensione per girare quindi le Pale alla base, ammirare la loro imponenza da vicino, e quindi scendere per il Giaron dei Cavai, prima, per il Giaron delle Giare Larghe dopo. Un desiderio indescrivibile da quel momento mi prese, mi sembrava di aver scoperto un tesoro e di esservi arrivato vicino, ma di non poterlo cogliere. Infatti, io pensavo di non essere allenato per una lunga e difficile ascensione. Pensavo inoltre che con i due chiodi che possedevo, potevo fare ben poco in caso di necessità. Però, per quanti ostacoli il mio buon senso mi mettesse davanti, il mio amor proprio combatteva spietatamente e vinse. Al momento però non feci parola con nessuno. Alla sera, attorno al fuoco, mi confidai segretamente con Trulla.
La decisione fu immediata.
All’indomani dovevamo farcela. L’indomani venne e prendemmo con noi pure la Lia e la Bruna.
Si parti piuttosto tardi. Erano le nove, quando con la corda a tracolla mi misi in cammino assieme agli altri. Attraversammo quel tratto bellissimo di sentiero in mezzo al bosco che ci portò dopo una mezz’oretta all’attacco. Salimmo subito una dura “punta di petto” che ci obbligò di mettere le “mani a terra” e dopo una quarantina di metri toccammo la roccia. Al contatto di essa mi elettrizzai. Sentii i muscoli delle gambe tremare e quelli delle mani stringere la roccia con veemenza titanica.
Subito incominciarono le difficoltà. Al primo ostacolo costituito da uno slavello di roccia inclinata e tutta bagnata dall’acqua che vi scorreva, io mi trovavo terzo. Trulla che in quel momento aveva la corda a tracolla, l’aveva già superato, mentre noi andavamo cauti perché sia la Lia che la Bruna avevano ancora gli scarponi. Poco dopo, però, gridai a Trulla di gettarci la corda e così, brevemente, potemmo superare altri quaranta metri circa uscendo dallo slavello. Raggiunto Trulla ci disponemmo immediatamente in cordata. Io da primo, la Bruna seconda, e quindi la Lia e Trulla.

09
Foto Sergio Francesconi

Potevano essere le nove e tre quarti quando partimmo. Il cielo era tersissimo e l’aria fresca. Guardando in alto, proprio nel mezzo del Vajo si scorgeva la prima Pala che spuntava. I miei occhi erano fissi là. Quella era la meta e là dovevo e dovevamo andarci.
Dopo lo “slavello” procedemmo velocemente per un altro centinaio di metri superando però continuamente salti di roccia ora alti, ora bassi, ora facili, ora difficili. Anzi ad un certo punto proprio uno di questi ci sbarrò improvvisamente il cammino. Poteva essere alto circa cinque m. con uno strapiombo di mezzo metro circa. In più rivoli d’acqua vi scorrevano giù ,sicché la roccia era ricoperta da uno strato di melma. Da questa parte, pensai, niente da fare! Osservai quindi la parete prima a sinistra e poi a destra. Ritenni più conveniente da quest’ultimo lato. Arrampicai alcuni metri, quindi con una facile traversata raggiunsi un canalino verticale che sembrava volesse portarmi fuori, sempre a destra del salto. Invece, anche questo, a mezzo metro circa dalla fine si chiuse improvvisamente formando anzi un piccolo tetto. Mi consigliai rapidamente con i compagni e quindi decisi di attraversare il salto verso sinistra. Si trattava di fare una traversata obliqua di qualche metro in piena verticalità. Per di più la roccia era bagnata perché vi scorreva l’acqua. Problema dunque abbastanza serio. Prima di partire feci avanzare Trulla fino a raggiungermi in modo da costituirmi una sicurezza, se non materiale almeno morale. Lentamente, facendo pressione con i palmi delle mani cominciai a spostarmi. Ad un certo punto però non trovando più appigli e trovando una provvidenziale fessuretta, conficcai un chiodo. Al suono caratteristico di esso, trovai nuove energie e riuscii a passare. Raggiunsi poi un ramo di albero che penzolava nel vuoto e rapidamente mi issai. Scrivendo provo ancora la commozione, la gioia e l’orgoglio che sentii in quel momento, dopo aver superato quel tratto abbastanza difficile. In breve tempo feci avanzare anche gli altri. Degne di ammirazione furono tanto la Lia quanto la Bruna. Certe volte, penso stupito, quanto devono allontanarsi dal loro sesso queste due ragazze. Certamente l’amore della montagna deve essere immenso per avere il coraggio di affrontare i pericoli e i disagi al pari di noi uomini e di uscirne con la medesima intrepidezza. Bisognava vederle, mentre arrampicavano, con quanta sicurezza ed energia stringevano gli appigli, con quelle loro manine che mi sembrava dovessero sciuparsi ad ogni istante! Procedemmo ancora per una mezz’oretta e senza alcuna difficoltà, quando incontrammo il secondo e grande ostacolo dell’ascensione.
Un salto di roccia di una trentina di metri di altezza lo sbarrava improvvisamente. Mi portai fino alla base, ma constatai che in quanto a superarlo…
Mi girai quindi verso sinistra attraversando il Vajo e portandomi anzi fuori di esso. Incominciai a risalire quindi per un canalino a fessura che vidi alla mia destra credendo che mi portasse facilmente nel Vajo e sopra il salto. Illusione! Ci ha portati si, nel Vajo, ma quali sudori! L’attacco di detta fessura era bellissimo. Qualche metro di salita in spaccata e quindi traversata a destra orizzontale di cinque metri circa. Alla fine di detta traversata un passaggio con uno strapiombo costituito dallo spigolo della parete formante la fessura, mi costò alquanta fatica.
Mi fermo, faccio sicurezza agli altri e quando arrivano, su ancora!
Anziché arrampicare in spaccata ,preferisco qui, arrampicare apertamente nella parete, portandomi però sempre più nell’interno della fessura. E questo per il fatto che la parete sulla quale arrampicavo era un po’ inclinata, mentre l’altra era strapiombante, sicché la fessura diventava obliqua. Sempre più faticosamente faccio un altro tratto di corda. Quando mi fermai, mi ricordo benissimo, non sapevo più da che parte voltarmi!
Ero circondato da pareti di roccia verticali e strapiombanti. L’unico lato libero era quello dalla parte del vuoto .Feci venire egualmente i compagni, infondendo loro coraggio e sicurezza. Quando fummo riuniti su uno spiazzo di circa un metro tentai di partire egualmente.
Però, questa volta, per quanti sforzi facessi, non riuscii a nulla. In parete non potevo arrampicare perché mancavano appigli ,in spaccata nemmeno perché ero troppo incuneato, salire di pressione neppure perché le due pareti andavano unendosi come i due lati di una piramide. Tento di piantare un chiodo. Fatica inutile! La roccia è liscia e compatta. Dopo alcuni tentativi questo mi vola dalla mano e descrivendo un bellissimo arco nel vuoto va a sbattere rumorosamente qualche decina di metri più in basso.
– Santa Cecilia! esclamo.
Trulla, fammi da scala, presto! L’amico intuisce il mio piano. Lentamente addossa la schiena alla parete e sacrificandosi, piamente, mi offre le sue larghe spalle.
– Trulla, tieni saldo il collo poiché salgo nella tua testa!
– Ecco! salgo ancora! Il più l’ho fatto, o per lo meno mi sembra di averlo fatto! Infatti le difficoltà non sono appunto diminuite. Mi trovo in strapiombo, ma fortunatamente ho le mani conficcate in una piccola fessura e con la forza delle dita devo issarmi. Stringendo i denti e pensando che se non riesco, è finita, salgo di pressione. Schiena (e qualche cosa più basso) e ginocchia mi servono mirabilmente. Ci rimetto però i calzoncini. Pazienza ancora!
L’importante è che ora sono arrivato in una posizione abbastanza comoda dalla quale pur faticosissimamente riesco a far avanzare gli altri. Inutile descrivere la commozione che ci ha invaso, quando, superato quel duro “cammino” potemmo discendere nel “Vajo” a qualche decina di metri più sopra del grande salto. La corda che legava i nostri corpi legava ancor più fortemente i nostri spiriti. Tutti per uno e uno per tutti. La discesa nel Vajo fu facilissima. Discendemmo per una decina di metri lungo un costone erboso aggrappandoci ai cespugli, quindi entrammo nel Vajo che era in quel punto facilissimo. Ci prendemmo il lusso anche, se così si può chiamare, di fare una breve sosta. Ce la meritavamo davvero dopo tre ore e mezza di arrampicata! Il cielo sopra le nostre teste era sempre bello e la temperatura mite. Eravamo giunti vicinissimi alle Pale e credevamo di aver quasi finito. La nostra “via” la scorgevamo ora benissimo e per intero.
Tento e ritento di innalzarmi ancora, ma inutilmente! Dopo più di mezz’ora di tentativi inutili decido di adoperare Trulla come… punto di partenza. Amorevolmente questi si inginocchia; salgo nelle sue spalle e quindi gli dico di alzarmi. Ecco, adagio, bene! La cengia è, superata. Però ora mi accorgo di essere in una vera trappola. Indietro non posso ritornare. Riesco solo a fare alcuni metri e dopo sono costretto a fermarmi. Afferro un grosso appiglio, cercando di sistemarmi meglio, ma questo si stacca improvvisamente precipitando nel Vajo e sfiorando le teste dei compagni che erano proprio sotto. Una scarica di sassi fa seguito ed uno di questi va a colpire la Bruna. Fortunatamente nulla di male. Soltanto un colpo alla coscia destra. Con la destra riesco a fermare un’altra grossa pietra che stava staccandosi. Grido immediatamente ai compagni di portarsi all’estremità della cengia poiché non ho più forza di sostenerla. Torno a gridare, ma poi lascio andare…
Mi appiccico alla roccia per non vedere. Odo un sibilo e dopo alcuni istanti solo un sordo fragore. Ringrazio mentalmente Iddio e quindi faccio coraggio ai compagni dicendo di aver trovato il passaggio. Durante la caduta del sasso il mio cuore aveva cessato di battere. Credevo di avergli spazzati via tutti e tre. Fortunatamente era passato sulle loro teste. Un tremito intenso mi invadeva proprio in quel momento in cui avevo bisogno di calma assoluta. Aspetto alcuni istanti, mi calmo, e quindi cerco di piantare un chiodo. Fatica inutile. La roccia è marcia completamente. Battendo col martello butto giù un’altra valanga di pietre riuscendo in tal modo a farmi un solido appiglio per il piede mezzo metro più a destra. Cambio piede; mi porto là e continuo questa marovra. Arrivo così due metri dal Vajo, quando nuovamente non posso avanzare. Ora la roccia è salda, ma io sono in pieno strapiombo, privo di qualsiasi sicurezza ed espostissimo. Un volo vorrebbe dire la fine di tutti e quattro. Mi metto in bocca la medaglietta della Madonnina appesa al mio collo e incomincio a cantare sottovoce. Riesco a fare un altro passaggio di piede e con quello libero trovo un altro provvidenziale appiglio. Allungo il braccio destro. Pianto un’unghia in un appiglio invisibile e facendo pressione mi getto pesantemente sopra il saio salto del Vajo, lontano in quel punto non più di un metro. Anziché far fare la mia strada faccio venire i compagni per lo strapiombo. Le ragazze mi promisero, in quel momento, un bacio per ciascuna ed a quello stimolo… rapidamente ci portammo alla base delle Pale. Le girammo quindi verso destra, salimmo una piccola ma faticosissima china erbosa e sboccammo nella forcelletta a cavaliere dei due versanti.
Vittoria!
Una muta stretta di mano espresse ciò che le nostre bocche non riuscirono a dire ammutolite dall’immensa gioia e della ebrezza per la vittoria conseguita. Le sette ore e mezza di quasi continue fatiche le dimenticammo in quel momento. Certo ci sembrava di dominare il mondo.
Solo allora le ragazze mi confidarono che nell’ultimo tratto difficile avevano pregato contemporaneamente la Madonna per farmi uscire dalla brutta posizione in cui ero messo, e solo allora, per ringraziarle le chiesi i baci promessimi.
f.to SERGIO FRANCESCONI

Complessivamente il Vajo può valutarsi ad un secondo grado. Il salto, dove piantai il chiodo, invece in buon terzo grado, mentre si può calcolare benissimo un quarto grado la fessura (lunga circa sessanta metri ed assomigliante alle Canne del Baffelan). Così pure può valutarsi quarto grado l’ultimo salto di roccia, alto circa venti – trenta metri.

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Foto Sergio Francesconi

Ritorniamo all’accampamento orgogliosi della nostra giornata e vi troviamo Romana in dolce far niente. Sollecitiamo una pasta asciutta perché da nove ore non si mangia e quando questa è pronta arrivano al campo pure Ivan, Maria e Aldo e con loro sono i due nostri compagni Enzo e Fausto partiti alla mattina dalla Città e ai quali noi offriamo cordialmente l’ospitalità.

Questo arrivo provoca a Trulla ed a Francesconi una grande sete e per calmarla non trovano di meglio che di rubare e svuotare indisturbati le quattro borracce di vino che i nostri ospiti volevano gentilmente offrirci per la cena. Quando il furto viene scoperto succede fra i compagni un parapiglia indescrivibile. Ivan è indignato e gridando allarmato
-Sant’Agata, proteggimi tu!
Se ne scappa a mettere in salvo una piccola borraccetta di vino riserbato per l’indomani, mentre gli ospiti sono costretti a dissetarsi con l’acqua della fonte. Più tardi uno scroscio di allegre risate mi fa avvicinare ai ragazzi. Era accaduto questo:
Volendo Ivan nascondere la sua borraccia di vino andò a metterla nella sua tenda. Dispose quindi, al di fuori, dal lato della porta, il servizio di guardia affinché non entrassero i ladri. (Un ragazzo di mio fratello aveva questo compito).
Però, generalmente, i ladri non entrano mai dalla porta ma dalle finestre o dal tetto. Così anche questa volta, elegantemente, Trulla sollevò la tenda, dal lato opposto della sentinella, entrò e silenziosamente cercò la borraccia. Trovatola, la vuotò completamente avendo anche l’avvertenza di metterla quindi al posto di prima. Avvicinò poi Ivan e gli chiese del vino. In seguito alle sue continue insistenze Ivan si commosse e, poverino, volendo dargli da bere si accorse del misfatto.
E’ quasi notte quando a Maria viene l’infelice idea di cucinare una pentola di fagioli per festeggiare il Ferragosto.
L’acqua manca ma ci si arrangia con quella della pasta asciutta dove sono state lavate anche le stoviglie. I fagioli vengono mesi sul fuoco ma in quanto a cucinarsi…
Dopo quasi due ore l’acqua della pentola è tutta consumata e i fagioli sono ancora crudi. Pazienza! Si mangeranno lo stesso! Ed effettivamente vengono mangiati ma ognuno di noi si sente in vena di generosità e ne offre insistendo ai compagni.
Ci siamo coricati alle ore 1 del mattino, sazi di cibo e di stanchezza.

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DOMENICA 15 Agosto 1943
Si sente nell’aria il giorno di festa e tutta la compagnia si fa bella per andare alla messa a Campo Silvano. Gli uomini si sbarbano (escluso il “Moro”) e si mettono la camicia pulita. Le donne levano dai sacchi le sottane e, per l’occasione, adoperano una leggera sfumatura di cipria e di rossetto. Bruna, di turno alla mensa, prepara in anticipo il pranzo perché vuole anche lei fare il proprio dovere di cristiana.
Alla 10 si parte.
Il nostro capo comitiva Trulla prosegue sicuro per un sentiero ma forse la sua mente è ancora annebbiata dal vino degli ospiti perché dopo mezz’ora di cammino si accorge di aver sbagliato strada. Tornare indietro? Macché. Per Trulla non esistono ostacoli e perciò ci fa scendere a fondo valle per un bosco intricatissimo, da dove usciamo con le gambe, e qualche altra parte, molto indolenziti.
L’ora della messa è trascorsa e il Torrente Lena ci attira più di Campo Silvano.
Le macchine fotografiche entrano in azione, mentre le vesti superflue vengono levate.
Bruna, sdraiata sulla sabbia, vuole a tutti i costi prendere la tintarella, mentre Maria è tutta intenta ad aggiustare i calzetti del sesso forte.
Io mi diverto a sollevare spruzzi d’acqua con i sassi, e, a far fare così, improvvise e poco gradite docce ai miei compagni.
Quando la fame si fa sentire risaliamo il bellissimo torrente e arriviamo in breve tempo al nostro domicilio. Nel pomeriggio grava sul “campo” un senso di tristezza. Trulla è costretto a lasciarci e ritornare in città per ragioni di lavoro. Tutti guardiamo con malinconia l’amico che, silenzioso, prepara il sacco e leva la sua tenda, perché sappiamo che con lui svanirà pure la bella allegria. Anche gli ospiti partono e, con Romana, Bruna e Francesconi li accompagno a Campogrosso.
Durante il cammino i partenti trovano giusto caricare i loro sacchi sulle spalle di noi donne, e noi ci sottomettiamo volentieri alla fatica, contente di risparmiare a loro, almeno il peso materiale e dimostrando, così, tutta la nostra bontà e dedizione.
In rifugio troviamo pure la Rina Cera delle Pompe Funebri, la quale esclamando sorpresa:
Mannaggia la peppacenca!
– ci abbraccia tutti con entusiasmo.
Quattro scatole di sardine miste con il pane calmano gli appetiti e aumentano la sete. Ma anche questo problema viene subito risolto a la sete si può calmare.
Esco dal rifugio, sbadigliando, infagottata nella giacca a vento di Francesconi e osservo con sorpresa la Sisilla che danza indiavolata.
– Sogno o son desta? -mi chiedo stupita.
Ma forse ho sognato perché quando riapro gli occhi, dopo una mezz’oretta di riposo all’aria aperta, vedo la Sisilla al suo solito posto, dignitosamente immobile.
Alle 21 salutiamo commossi Trulla (il quale pernotta in rifugio per ripartire all’alba dell’indomani) e ci avviamo lentamente verso l’accantonamento. La luna ci riveste del suo chiarore, offuscato per pochi istanti dall’eclissi, ci accompagna, civettuola, illuminandoci il commino.
A pochi metri dal “campo” un compagno mi viene incontro avvertendomi che mio fratello ha avuto uno svenimento causato da una leggera insolazione. Corro da lui e mi accerto che si tratta solo di un’indisposizione passeggera. Quando vedo che mio fratello riposa calmo lo lascio e mi unisco al compagni seduti vicino al fuoco. Ma, sia la mancanza di Trulla, sia per il piccolo incidente accorso a mio fratello, l’allegria manca, perciò la compagnia si scioglie lentamente e ognuno rientra nella propria tenda per riposare.

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LUNEDI’ 16 Agosto 1943
Ognuno si sveglia ripromettendosi di sfruttare, nel miglior modo possibile, questa ultima giornata di accantonamento. Maria, Aldo Gallia e mio fratello, già ristabilito, partono presto accompagnati da Ivan, loro capocordata per compiere l’ascensione del Vajo del Lovaraste. Bruna va a prendere Rina Cera a Campogrosso, Romana rimane al “campo” per prepararci il pranzo e io con il “Moro” vado a rifornire vino a Campo Silvano.
Un facile sentiero mi accompagna dolcemente e in breve tempo a questo piccolo paesetto. La prima persona che incontriamo scambia Francesconi per il dottore del suo paese e lo saluta con cordiale sorpresa. Chiarito l’equivoco ci facciamo indicare l’osteria del paese, dove entriamo, pacifici, senza immaginare ciò che ci aspetta. La bomba scoppia alla mia entrata, quando la padrona del locale, guardando spaventata i miei pantaloncini corti, mi avverte che in paese si sono i carabinieri. Non ho il tempo di fare un passo per allontanarmi che un baffuto e panciuto maresciallo, con le insegne della Benemerita, si profila sul vano della porta e con un fiero cipiglio mi lancia uno sguardo truce.
Io mi faccio piccola, piccola e cerco di scomparire ma mi sento investire da una fiumana di parole che dicono di Leggi, di Codici, di Articoli nonché di immediate telefonate e di prigioni. Mi difendo allungando una gamba e mostrando a quel baffuto uomo la lunghezza dei miei pantaloni e porto in esempio i vestiti delle ragazze che vanno in bicicletta.
– Perfino il Parroco del Duomo di Vicenza – esclamo risentita ha detto che sono preferibili i pantaloni alle sottane moderne. E le parole di un Parroco…
– Silenzio! – mi interrompe con forza il maresciallo.
– Signorsi, signor Mareciallo! -rispondo io timidamente.
E con un’espressione angelica e addolorata abbasso la testa, cercando di commuovere, così, l’importante personaggio.
Finalmente i miei timidi sguardi pieni di mute implorazioni, hanno il potere di commuovere quel cuore di iena e con un sospiro di liberazione mi sento mettere in libertà. Mi allontano correndo dal paese, seguita dal “Moro”, mio provvisorio fratello e, attraverso il bosco, scendo al torrente dove con immediati bagni freddi alla fronte, calmo la mia agitazione. Un bellissimo sentiero nel bosco mi porta in breve tempo all’accantonamento dove vi trovo la Rina, nostra ospite per l’ultimo giorno.
Intanto Romana, con l’aiuto di Bruna ci prepara l’eterna ma sempre gradita pasta asciutta. Rina è disorientata e guarda, fra divertita e spaventata le nostre abitudini alquanto primitive. Ma mangia con appetito e ci racconta, per l’ennesima volta, che, in rifugio, una porzione di pollastro doveva pagarla quasi cinquanta lire.
Nel pomeriggio, sdraiata sull’erba, con Romana e Lina guardo il “Moro” alle prese di un problema intricatissimo.

– Lia, me la fai tua questa moltiplicazione? – mi domanda supplichevole.
Guardo spaventata il numero moltiplicatore e rifiuto decisamente. Per scongiurare altri pericoli del genere mando a prendere le carte da gioco, e rivolgendomi a Rina domando seriamente:
– Vuoi che ti legga l’avvenire? Ho imparato molto bene da una chiromante e quasi sempre i miei responsi sono stati giusti. Rina non dubita delle mie parole, e accetta con entusiasmo la proposta moderando a stento la sua curiosità. Il mio volto prende un’espressione tragica e grave e, socchiudendo gli occhi, guardo fisamente le carte che sfoglio lentamente, mentre a bassa voce pronuncio le sacramentali parole.
– Tu hai amato tanto un uomo che ti ha tradita per una donna bionda. Questo uomo ora veste una divisa e ti pensa sempre con amore.
– Mi pensa? – interrompe, piacevolmente sorpresa, Rina.
-Ti pensa – continuo io imperterrita – e vorrebbe anche scriverti. Ma la stessa donna bionda ostacolerà questo suo desiderio.
Sul viso di Rina scende un velo di delusione, che io elimino subito con disinvoltura.
– Con questo uomo tu non potrai mai essere felice, perché in presto incontrerai il secondo grande amore che ti sposerà e ti darà due figli e una grande felicità!
Rina sorride con beatitudine, completamente rasserenata.

Continuo.
– Devi guardarti da una donna bruna che ti odia e vorrebbe fare la tua infelicità.
– Una donna bruna? – mi interrompe, nuovamente incuriosita, Rina.
E chi sarà?
– Mistero! – esclamo io gravemente – un giorno lo saprai!
In mano mi rimangono ancora due carte che cerco di sfruttare nel miglior modo possibile.
– Nella vita avrai sempre tanta salute. Vedo solo qualche piccola indisposizione, ma senza conseguenze gravi.
Lentamente volto l’ultima carta!
– Asso di denari! – esclamo vivamente – Rina sei fortunata. Diventerai ricca e vedrai sempre una vita comoda ed agiata.
Rina è felice e io morsicandomi le labbra cerco di frenare una risata, e per darmi un contegno guardo il “Moro”, che mi osserva divertito, e le chiedo seriamente:
– Vuoi che ti legga l’avvenire, “Moro”?13
Ma vedo subito che con lui non attacca e che accetta solo per convincere ancora più la Rina.
Riprendo le carte in mano e gli pronostico un avvenire fortunato, avventuroso e amoroso. Onori, soddisfazioni, ricchezze e donne bionde e brune in quantità.
E si trascorre, così, in allegria il pomeriggio.
La sera si avvicina quando arrivano al “campo” Ivan, Maria, Aldo e mio fratello, entusiasti della bella ascensione del Lovaraste.
Facendo circolo attorno al fuoco gli alpinisti della giornata ci cantano, gratuitamente, l’Arlesiana che provoca, a noi ascoltatori, effetti disastrosi. Il “Moro” dorme, Bruna rientra in tenda, io fremo e Romana fuma continuamente sperando così di far morire asfissiati gli artisti della lirica.

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MARTEDI’, 17 Agosto 1943
Il sole sta per levarsi quando dalle tende escono gli inquilini per salutare Francesconi, che deve partire subito per ragioni di studio. Baci, abbracci, strette di mano e cordiali arrivederci. E se ne va, così, anche il secondo compagno mentre noi iniziamo i preparativi per la partenza. Scendo per l’ultima volta alla fonte a rigovernare le stoviglie, ma prima di iniziare l’ingrato lavoro, accendo una sigaretta e godo serenamente gli ultimi istanti di solitudine. Poco dopo, mentre sono china all’umile lavoro, i compagni mi raggiungono reclamando impazienti la doccia mattutina. Riempio la pentola di acqua freddissima e impugnando il mestolo verso il ghiacciato contenuto sulle schiene curve dei miei compagni, che rabbrividiscono istantaneamente. Talvolta mi diverto a versare improvvisamente e impetuosamente l’acqua sulle orecchie e sul collo del “paziente” il quale si ribella subito, tutto intirizzito. Anche Romana vuole, per l’ultima mattina, gustare le delizie di una doccia, ma non trova necessario levarsi le vesti, perciò quando si accinge ad asciugarsi è costretta a farlo delicatamente per non smuovere i visibili ricordi, della polvere e del carbone, lasciati il giorno precedente sulla sua delicata epidermide. Ritorniamo allegramente al “campo” dove consumiamo l’abbondante colazione preparata da Maria, la quale continua a ripetere:
– Nessuno vuole portare a casa i resti delle cibarie. Bisogna assolutamente mangiare il più possibile.
Tutti sono d’accordo con lei ma, quando dopo un’ora, ci viene presentata una pantagruelica porzione di riso, nonostante la nostra buona volontà, siamo costretti ad assaggiarla appena, tanto siamo sazi. Subito dopo incominciamo a levare le tende e arrotolare le coperte e, dopo di ciò, ognuno va alla ricerca dei propri oggetti, sparsi ovunque.
– L’asciugamano! Cerco l’asciugamano! Chi me lo ha preso?
– Non trovo il mio coltello, e la scatola porta vivande. Dove sono?
– Eppure l’ho adoperato ieri sera il mio cucchiaio e l’ho posato propria qui, su questo sasso. Ora è sparito. Dove mai si sarà cacciato?
Incroci di domande e di risposte. Soliloqui e brontolii, imprecazioni e risate. Quando l’ultimo sacco viene chiuso, amaramente constatiamo che tanto il peso come il volume non sono diminuiti dal giorno del nostro arrivo e inutilmente ci chiediamo stupiti la spiegazione di questo mistero.
L’ora del ritorno è arrivata.
Con un ultimo triste sguardo salutiamo il luogo di tanti dolci e allegri ricordi e ci avviamo lentamente verso l’ormai dimenticata città.
Le montagne ci accompagnano per un lungo tratto di cammino e sono tanto luminose e belle che sembra si siano vestite da festa, per lasciarci, più doloroso, il rimpianto.
Guardandole instancabili ci congediamo da loro con le commoventi parole di una “canta” alpina:

Monte e mie vallate
mai più vi scorderò.
Foreste imbalsamate
voi siete il mio tesor.

E sembra che ognuno di noi, cantando lentamente e a bassa voce quella canzone, formuli una sacra promessa d’amor.

La Trappola
Lia Amelia Magrin
Vicenza, 30 Agosto 1943

3 Comments

  1. segnalo che circa il tentativo condotto da G. Pieropan nel Vajo dell’Uno, a quel tentativo avevano partecipato alcune delle stesse ragazze. Si trattava di gite giovanili tra tusi e tose…. piuttosto che di intraprese alpinistiche. Nelle relazioni relative non si fa cenno al fatto che ci fossero delle ragazze, e comunque si fermarono alla prima strozzatura del Vajo.

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